La tragedia umana di un uomo mite e perbene che, giorno dopo giorno, vede tutta la sua vita andare in pezzi. Stritolata da un meccanismo perfetto di rara ferocia. È quella che Antonio Albanese narra in Cento domeniche, ma è anche la storia di centinaia di migliaia di risparmiatori italiani che si fidavano dei loro storici istituti di credito, come si fidavano del parroco o del medico condotto. Pagando carissimo un doppio tradimento: economico e morale, come racconta l’attore, «Sa come qui chiamiamo la nostra banca? La chiamiamo “il confessionale”.»
Un buco nero
Il protagonista del film, che appartiene alla modesta borghesia metalmeccanica tutta casa, lavoro e qualche partitina a bocce, viene inghiottito nel buco nero dei crack bancari. Di lì un vortice di ipocrisie, truffe e silenzi da parte di chi avrebbe il compito di tutelare propri il cliente, il lavoratore. Una storia uguale a quella di centinaia di migliaia di persone diverse. Alcune senza neppure la possibilità teorica di leggere contratti dalle clausole ambigue firmati sulla fiducia di chi pensavano dalla propria parte.
Fiducia tradita
Perché mai leggerli per ore, codicilli compresi, se il funzionario incoraggiava a fidarsi? È esattamente quello che capita al personaggio del film di Albanese, che ha girato parte delle riprese cinematografiche proprio nello stabilimento di Olginate, sul Lago di Como, dove lui stesso, tanta fabbrica, fece fino a ventidue anni il tornitore.
La dedica
«Ho girato nei luoghi dove son cresciuto, tra persone che conosco da sempre, attori straordinari», racconta Albanese, «ci furono funzionari, cassieri e impiegati che, come in Cento domeniche che, presi dallo scrupolo, cercarono di mettere in guardia i risparmiatori più ingenui se non sprovveduti. Era un film necessario.» Il film di Albanese, dicono i titoli di coda, è dedicato a loro. Quelli che si fidarono e furono traditi.