Isolato da tutto e da tutti. Chiuso in una cella di due metri per tre, all’interno di una colonia penale nel remoto Artico russo. Qui si trovava da tre settimane, nelle mani dei suoi nemici. Senza poter comunicare con l’esterno. Avrebbe potuto rimanere all’estero, ma aveva scelto di tornare, consapevole di finire in carcere. E mettendo in conto che ad attenderlo poteva esserci la morte.
Navalny venne condannato per la prima volta nel luglio 2013, appropriazione indebita di patrimonio statale della società pubblica Kirovles. Accuse avvolte nel mistero e atti mai resi pubblici. Condannato per altre dieci volte, dal 2011 al 2018, agli arresti amministrativi, per reati di adunata sediziosa. Già nel gennaio del 2021, poco dopo il suo rientro dalla Germania, era stato fermato per «violazione delle regole». Fu impossibilitato a presentarsi, poiché ricoverato, tra la vita e la morte. Era stato avvelenato da una squadra speciale del Fsb, il servizio segreto russo. Nel marzo del 2022 viene riconosciuto colpevole per truffa aggravata, con una condanna a 9 anni di reclusione. Il triste epilogo è storia di oggi.